"La notte dopo sono volato nell'orto. E dal folto di un cespuglio ho ricominciato i gorgheggi dell'usignolo. Con tutta la mia capacità di farli arzigogolati e liquidi. Poi stavo attento alla finestra, se si apriva, e se la mia bella rispondeva. E mi batte il cuore fortissimo perché sento chiaro e vicino il grido acuto della starna in amore. E dev'essere lei, mi dico, che mi risponde in quel modo. E allora corro, entusiasmato, facendo i trilli che fanno le allodole per dire “Sono qui! Sono qui!”. E mi sentivo leggero, che avrei potuto volare.

La mia starna, intanto, aveva smesso di farsi sentire e io, con il collo dritto in ascolto, cercavo di capire dove si fosse acquattata. Invece sento un cuculo sulla mia testa e stando chinato dietro a grandi foglie di verza, scruto nel buio, tra i rami, per poterla vedere. Poi dei fruscii. Qualcosa mi alita in faccia e risento il cucù un po' più in là. Io le volo dietro, planando sul fieno tagliato, facendo i suoni frementi della beccaccia che vibra le ali. Poi qualcosa soffia sulle mie orecchie, tanto che io faccio un salto. Sarà lei che fa la cincia che non vuole più essere infastidita. E poi a dieci passi la risata di un picchio e un rumore di ali.

A questo punto mi sale alla gola, forse per l'impazienza, un verso che si ascolta in mezzo ai canneti, il verso del tarabuso, che è rarissimo ma io lo conosco. Ed è come un muggito profondo, che non sembra d'uccello ma di un pachiderma o di un bufalo. E lontanissimo, molto lontano, risento il canto di starna di lei, che mi chiama. “Aaaah!”, mi dico, “mi vuole!”. E come un fringuello che non dà tregua alla femmina, salto su e giù per i fossi, verso i campi di rape, inciampando per il buio ad ogni momento, e intrappolandomi in mezzo al ginepro.

E alla luce di una luna grandissima, ho visto la distesa silenziosa dei campi”.

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