Cinquant'anni fa usciva il peggior disco dei Doors: The Soft Parade.
L'affermazione è provocatoria, ma sembra cogliere un sentire abbastanza diffuso riguardo al quarto album della band.
In un periodo in cui Jim Morrison era in preda a sé stesso, all'alcol, all'ansia e al delirio, la band, reduce da un lungo tour euro americano con performance talvolta raccapriccianti, non aveva avuto nessun tempo per mettersi al lavoro su nuovo materiale. I Doors erano sull'orlo della rovina per problemi legati alla sregolatezza di Morrison e si ritrovarono in studio di registrazione costretti a partorire idee per un album del quale probabilmente non sentivano il bisogno. The Soft Parade fu un parto difficile, sforò i costi di produzione ed esasperò le tensioni presenti nel gruppo. Il risultato, non privo di picchi eccellenti, continua in qualche modo a far storcere il naso.
Contestualizzato all'interno della discografia doorsiana il disco risulta effettivamente il più debole, come se i quattro ragazzi di Los Angeles avessero esaurito il fuoco iniziale. Le canzoni possono sembrare prive di potenza, prive di quella energia mistica ed erotica che tanto fece parlare di The Doors (1967), prive della profondità ammaliante del re lucertola e troppo piene di escamotage riempitivi e di patinature pop. Le soluzioni adottate nell'album non furono viste di buon occhio dai fan della prima ora e tutt'oggi suscitano ancora grossi interrogativi. Ad un ascolto più attento però l'album rivela di sé una serie di qualità uniche e di trovate interessanti per nulla scontate. Sotto la superficiale etichettatura “pop” si cela una musica ricca, profonda e solida. Nel disco affiorano contaminazioni jazzistiche ed orchestrazioni classiche, riecheggiano il blues e i canti dei nativi; arrangiamenti potenti, strutture stravaganti e sperimentali vanno a colorare gli inconfondibili tratti distintivi del gruppo: il suono acido delle tastiere di Ray Manzarek, il chitarrismo liquido di Robby Krieger e la dilagante vocalità di Morrison, tanto più potente quando incontrollata.
Un brano emblematico di questo album è la title track The Soft Parade. In questo brano si alternano varie sezioni con intenzioni ed andamenti diversi tra loro: una invettiva si trasforma in una ballata, da questa esplode un riff scatenato che, passando per un intermezzo ironico e saltellante, ci lancia nella trascinante cavalcata finale. Le liriche del brano sono poesie di Morrison che si rivela capace di una grande tavolozza di suggestioni: rabbia, ossessione, violenza, rassegnazione, sogno, follia, droga, inadeguatezza, ubriachezza, ritualità collettiva, estasi, catarsi e una grande dose di energie fuori controllo. Se ci stiamo ancora chiedendo dove porterà questo assemblaggio confuso di pezzetti senza soluzione di continuità, ci basterà sentire Jim che urla con tutto il suo fiato perché una cosa risulti chiara: anche in piena crisi, questi ragazzi non scherzano affatto.