Accade spesso che imprevisti e incidenti di percorso possano rivelarsi nuove opportunità, nell’arte come nella vita. È il caso dei Pink Floyd e del chitarrista e fondatore Syd Barrett, allontanato dal gruppo dopo una lunga serie di vicissitudini umane e musicali tristi e faticose, che spaziano dall’abuso di droghe ai problemi patologici di una mente erratica e incompresa, che sembrava ostentare ai compagni la volontà di continuare ad essere considerata tale, rendendosi del tutto inaffidabile e compromettendo la buona riuscita di prove, concerti e progetti. Così, nel gennaio del 1968, David Gilmour entrò a far parte del gruppo come chitarra ritmica di supporto a quella di Syd, ma nel giro di qualche settimana lo soppiantò definitivamente e la band prese la forma che tutti conosciamo e che da lì a un decennio avrebbe firmato solo capolavori.
Oggi, a cinquant’anni di distanza, uno di quelli di maggior difficoltà interpretativa resta Ummagumma, pubblicato come doppio lp il 7 novembre 1969 e recensito dall’International Times come “uno dei migliori mai ascoltati.” L’album risulta inconsueto a cominciare dalla struttura: il primo disco è un live registrato tra Birmingham e Manchester nella primavera di quello stesso anno, mentre il secondo è diviso in quattro grandi sezioni, ognuna delle quali contenente composizioni di un differente membro del gruppo. Una possibile chiave di lettura dell’impostazione dell’album può risiedere nel binomio insieme-individuo, ricercato dalla band in modo tale da poter offrire un quadro sonoro qualitativamente completo: alla robustezza e alla pienezza delle registrazioni dal vivo vengono opposti i movimenti millimetrici e meticolosi dei brani individuali. Il risultato è una magnifica, saporitissima summa di quello che i Pink Floyd erano diventati e di come si stavano presentando sulla soglia turbinosa degli anni Settanta: potenza, equilibrio, profondità, ricerca, dialogo, esuberanza, sperimentazione, libertà e spregiudicatezza.
Va da sé che il proposito di estrarre una singola traccia da un lavoro di questo tipo non sia cosa facile, ma dedicheremo comunque un po’ di spazio ad una delle tracce presenti nel secondo album, quello delle composizioni individuali, e in particolare a Roger Waters e alla sua Several Species of Small Furry Animals Gathered Together in a Cave and Grooving with a Pict, ossia Alcune specie di piccoli animali pelosi riuniti in una grotta se la spassano con un Pitto (antico abitante della Scozia). La straordinaria quanto semplice particolarità di questo pezzo sta nel pezzo stesso: non sono presenti strumenti musicali. La voce di Waters, registrata e riprodotta a più velocità, e alcuni colpetti sul microfono, danno forma a cinque minuti di musica folta, frizzante e giocosa, non meno che coraggiosa e intelligente, in un’epoca in cui i software per tagliare e incollare con un click sono lontani anni luce e il nastro è protagonista assoluto. Loop, echi ed effetti ritmici danno l’impressione di essere nella grotta insieme agli animali e al Pitto, che spunta sul finale parlando con un marcatissimo accento scozzese.
Sebbene non sia un mistero la scarsa soddisfazione dei Pink Floyd nei confronti di Ummagumma, non si può fare a meno di sottolineare la crucialità di un album che porta in sé urgenze comunicative enormi, figlie del calderone sessantottino e di quell’eterno ruotare, perdere e ritrovare a cui gli artisti non hanno mai potuto fare a meno di aggrapparsi. E Ummagumma lo fa a pugni stretti, senza paura. Se si rallenta l’audio del pezzo di Roger Waters, al minuto 4.34 si sente la sua voce chiedere “That was pretty avant-garde, wasn't it?” - “Piuttosto avanguardistico, no?”
Sì Roger, sì.
C.