Quanti ricordano John Lennon?
Quanti Nick Drake?
Quale filo sottile impedisce ai due musicisti inglesi di incontrarsi e di condividere una fetta, anche piccola, di una vita dedicata alla musica?
Successo, fama, dischi, concerti, contratti, milioni di copie vendute e milioni in banca per il primo, venti sterline a settimana, un pubblico ridotto, chiassoso e disinteressato per il secondo, unito all’ingerenza violenta e frettolosa della casa discografica e all’indifferenza della critica e dei tabloid.
Per quanto possa essere faticoso ammetterlo, la sola arte non basta a far emergere la qualità del lavoro svolto, ma si presenta anzi impietosa e suddita del mercato, della fortuna, delle epoche e della personalità dei singoli artisti. E il silenzioso, delicato, introverso Nick Drake non aveva né unghie né denti per chiedere l’attenzione del pubblico, il rispetto delle sue scelte artistiche e per sostenere il valore del proprio lavoro prima di ogni altra cosa.
Esile e malinconico nel canto, minuzioso e sensibile nella scrittura dei testi, preciso e fantasioso in quella della musica, arrivò a dare forma ad un’arte fragile e disarmata, lontana dal caos delle città, dal traffico, dai semafori, dalle risate salottiere e dagli amici nottambuli. Un’arte che non chiedeva altro che di essere ascoltata, in punta di piedi e a mente sospesa, come quando ci si ferma a guardare la campagna, ogni giorno immobile e ogni giorno diversa.
Un prezzo evidentemente troppo alto per “Five Leaves Left”, pubblicato come LP l’1 settembre 1969 e già portatore di quello stile che, oggi più di ieri, fa di Nick Drake un artista acuto e appassionato, seppur verginale nel modo di guardare alla vita. Ogni canzone suona come un piccolo quadretto a sé, in cui le linee e gli scorci si aprono e si chiudono all’osservatore senza che questi abbia la possibilità di intervenire e di misurarsi con le forme e le figure. Il tutto resta incorniciato dal personalissimo tocco che Drake aveva sulla chitarra, compagna di notti trascorse a sperimentare e a studiare accordature fuori da ogni schema e da ogni repertorio, fino a rendersi portatrici di una tecnica e di un linguaggio ricchi di ombre e venature insolite.
Nel brano “Day Is Done” trovano uguale spazio la bellezza del testo e quella della musica, unite in un’espressività che resta poetica e delicata anche di fronte al dolore del sole che affonda nella terra e dei giorni che finiscono trascinandosi appresso il freddo della notte e le sconfitte.
E delicata fu anche la fine, che lo inghiottì a ventisei anni alle prime luci dell’alba con una dose eccessiva di antidepressivi. Solo nella sua stanza, steso sul suo letto e con il vinile dei Concerti Brandeburghesi di Johann Sebastian Bach che girava ancora sul piatto.
Silenzioso e luminoso, come una stella cadente ha lasciato una scia intima e preziosa, e la sua musica, oggi di facilissimo accesso tra canali fisici e virtuali, merita il tempo che la sua epoca non ha saputo concedergli.
G.