“We Were Punk, before punk. We were New Wave, before New Wave. We were Metal, before Metal” (eravamo Punk, prima del punk. Eravamo New Wave, prima della New Wave. Eravamo Metal, prima del Metal). Così Rob Tyner definisce il suo gruppo, gli MC5.
Per certi versi una meteora durata il tempo di esplodere e creare uno scompiglio disastroso, per altri versi una pietra miliare del rock, una band di precursori politicizzati che non hanno avuto paura di colpire duro.
Gli MC5 (Motor City 5), espressione devastante della Detroit degli anni 60, si schierarono apertamente contro l'establishment appoggiando e fomentando le ragioni della rivoluzione, contro segregazioni di ogni genere. I loro testi e le loro performance erano infatti incarnazione di questi ideali, nella maniera più cattiva. Il live Kik out the Jams fu registrato la notte di Halloween del 1968 ed uscì a gennaio dell'anno successivo, raccogliendo per intero la performance al Grande Ballroom che divenne l'icona del gruppo e una pietra miliare del rock.
Nella stessa Detroit che vedeva muovere i primi passi anche agli Stooges, gli MC5 si distinguevano dai loro concittadini per una aderenza politica netta e senza compromesso. Lo show era fatto sì di follie scoppiettanti, di distorsione dura e pura e di rumore, ma anche di un incitamento umano, quasi da risveglio spirituale, che caricava l'energia collettiva e infuriava in direzione delle malefatte governative, delle politiche razziali e della disuguaglianza sociale da cui proveniva la band. Sono presenti ante litteram, ma non certo in maniera embrionale, la cattiveria del punk e il gusto sgraziato del garage rock, ma in questa bollente massa lavica fanno capolino background disparati: il blues di John Lee Hooker, le esplorazioni cosmiche di Sun Ra (entrambi sottoposti a cover in questo disco) e il fluire incontrollato del free jazz di Alber Ayler.
Nel brano che vi proponiamo oggi, Starship, gli MC5 affrontano Sun Ra utilizzando un suo testo in una rielaborazione musicalmente avvelenata e demolitrice. Un amalgama informe fa da tappeto alle parole che ci sparano dritti fuori dal sistema solare, l'incastro di chitarra e batteria, ricorda un po' Jimi Hendrix, ci spintona fino al rumore più duro e puro dal quale emerge una fase più dilatata, ma non per questo tranquilla. Da qui fino al finale è tutto un susseguirsi in crescendo di rumori rarefatti, voce filtrata, fischi ed urla, il ritmo non è più ritmo, tutto diviene torbido e concitato, le parole non sono quasi più distinguibili tra i lamenti e i versi. La detonazione di un concentratissimo agglomerato sonoro lascia per un attimo spazio al riemergere di una sorta di sermone, per arrivare sul finale circa al punto in cui eravamo partiti: la densa e sovraffollata massa sonora del presente.
G.