Quando si parla di Jethro Tull, l’immaginazione non può che correre subito a Ian Andreson e al suo fedele compagno argentato: da oltre mezzo secolo infatti, il frontman e il suo flauto attraversano il mondo del rock senza eguali né compromessi, trascinando il nome della band lungo quel crocevia artistico il cui accesso è consentito solamente a chi ha avuto reale influenza sul suo tempo.
Dopo un esordio sulla scia del blues un po’ disordinato ma decisamente personale, Ian Anderson e compagni entrano in studio il 17 aprile 1969 per iniziare le registrazioni del secondo album, dal titolo Stand Up, espressione che possiamo leggere sia come un incoraggiamento che come una salda presa di posizione: dopo l’abbandono del chitarrista Mick Abrahams e l’ingresso nella band del magnifico Martin Barre, Jethro Tull significa anche consapevolezza del proprio potenziale, significa avere il coraggio di inserire una balalaika tra le righe spesso troppo nette del rock, significa prendere una sonata firmata nientemeno che da J. S. Bach e trasformarla in un’esplosione swing con intelligenza e precisione.
Ecco dunque gli ingredienti su cui si delinea il secondogenito di casa Tull, pubblicato il 25 luglio 1969 e ben presto capolista della classifica britannica, la quale contribuì a mantenere i riflettori ben accesi anche in vista del mercato mondiale e che in parallelo riuscì ad esaltare l’originalità e il design della copertina, riconoscibile oramai ovunque. Nel febbraio di quello stesso anno infatti, la band incontrò l’artigiano James Grashow, che accettò di seguire il gruppo per un’intera settimana in modo da poter dare alla rappresentazione grafica il taglio più poliedrico possibile. Ne uscì così la xilografia che tutti conosciamo, destinata originariamente ad essere aperta come un libro pop-up per bambini, con la band che graficamente si alzava in piedi richiamando il titolo dell’album.
Il brano di apertura del disco, A New Day Yesterday, scioglie il sipario tra sonorità tetre e rudi, ulteriormente appesantite dalla voce incupita e cavernosa di Anderson; una novità rispetto al timbro limpido e fresco del cantante scozzese a cui erano abituati gli ascoltatori.
Strutturato come un blues fangoso e massiccio, il pezzo sembra quasi un richiamo all’album precedente, This Was, con un basso pesante e insistente che caratterizza il pezzo dall’inizio alla fine, senza però rinunciare agli interventi di flauto e armonica e senza far mancare un ottimo riff. Tutto in perfetto stile Tull insomma.
Segue il breve e solare Jeffrey Goes To Leicester Square, allegro e giocoso tanto nelle sonorità quanto nei contenuti. Il pezzo si rivolge a Jeffrey Hammond, un amico di Ian Anderson che due anni più tardi sarebbe diventato il bassista della band (una simile dedica gli era già stata offerta nel precedente album con Song for Jeffrey).
Piccoli tamburi, balalaika e un secondo flauto suonato da Martin Barre conferiscono al brano un tocco folk intimo e spensierato, gestito con delicatezza.
Riagganciamoci invece adesso al sopracitato Bach e in particolare alla sua Bourrée dalla Sonata BWV 996, composta a inizio Settecento probabilmente per liuto o clavicembalo e oggi caposaldo del repertorio chitarristico.
Unico pezzo interamente strumentale dell’album, Bourée si allaccia e si slaccia dalla struttura bachiana, contemporaneamente riprendendo e rifiutando andamento, armonia e intervalli della musica della tradizione (significativa è la “r” estromessa da Anderson nel titolo, come a voler sottolineare che la sua bourrée di fatto non sia una bourrée, ma che non possa comunque evitare di mostrare la radice da cui proviene). Il risultato del connubio Bach-Anderson è un cocktail gustosissimo di antico e moderno, istinto e intelletto, elasticità e struttura, sacro e profano, in cui un Bach preda del rock e dello swing si ritrova a trascinare un assolo dietro l’altro, tra suoni sporchi, urla, soffi e virtuosismi rocamboleschi (un occhio attento non potrà aver fatto a meno di notare che alcune delle posizioni utilizzate dal giovane Anderson sullo strumento non siano quelle corrette, ma quando i risultati sono questi…ben venga).
Suddivisa quindi tra sonorità rock e frasi settecentesche, Bourée sposa con successo la vivacità e il gusto di due musicisti separati da oltre due secoli e mezzo di storia, ma uniti in quel fiume inarrestabile che raccoglie le urgenze, gli umori e i frutti eterni dell’umanità intera: l’arte.
Il pezzo successivo, Back To The Family, mette in luce più di ogni altro Martin Barre e la sua chitarra pungente e versatile, in un crescendo che la vede protagonista fino alla dissolvenza finale insieme all’assolo del flauto. Non particolarmente interessante dal punto di vista musicale, il brano offre però un testo significativo, incentrato sui turbamenti che sia la campagna che la città non possono fare a meno di offrire: o per troppa quiete o per troppo stress, l’animo del viaggiatore non trova comunque mai appagamento e ogni approdo nel luogo desiderato non fa che accompagnarsi al pensiero nostalgico per il luogo appena lasciato.
Look Into The Sun cova a sua volta un sapore fortemente malinconico, sul timbro caldo e metallico della chitarra acustica. Anche in questo caso, significativo e ricco di suggestioni è il testo: una lunga poesia di amore, di rimpianti e di speranza, degna di essere tradotta e letta per intero.
Scelsi una canzone triste in una dolce serata
sorrisi e subito voltai lo sguardo.
Non è facile cantare canzoni tristi
ma è il modo più semplice che ho per dirlo.
Perciò quando guardi il sole
e vedi le cose che non abbiamo fatto
oh, era meglio darsi da fare
piuttosto e passare l'estate a piangere.
Ora l'estate non verrà comunque
Ho aspettato a lungo per farla cambiare
ma l'unico a cambiare sono stato io.
Fingeva di non volere l'amore
spero mi stesse solo prendendo in giro.
Perciò quando guardi il sole
guarda i piaceri sfiorati,
è meglio darsi da fare
piuttosto che passare l'estate a cantare.
E l'estate avrebbe potuto arrivare in un solo giorno
Se senti cantare le mie tristi canzoni
ricorda chi e cosa avevi quasi ottenuto
non è semplice cantare canzoni tristi
quando puoi cantare la canzone che mi rende felice.
Perciò quando guardi il sole
e vedi le parole che avresti potuto cantare
non è troppo tardi, è solo l'inizio,
e possiamo ancora far venire l'estate.
Sì, l'estate arriva comunque.
Perciò quando guardi il sole
e vedi le parole che avresti potuto cantare
non è troppo tardi, è solo l'inizio.
Guarda nel sole
Decisamente più vicino alle sonorità blues graffianti dell’inizio, la vivacissima Nothing Is Easy assume l’aspetto di un concentrato di energia. Una pioggia serrata di potenza ad altissimo volume riempie senza sosta quattro minuti abbondanti di quel rock spavaldo e micidiale che proprio in quegli anni iniziava ad accollarsi le etichette di “hard” e “progressive”, etichette di cui i Jethro Tull insieme a Pink Floyd, Led Zeppelin e King Crimson si resero portavoce fondamentale. Ogni altra parola sarebbe inutile rispetto alla musica stessa, ascoltare per credere.
Esotica e umoristica, Fat Man si pone tra quei pezzi insieme tipici e atipici della band, in una mescolanza di sonorità ed esperimenti che Ian Anderson e colleghi hanno sempre coltivato con interesse e con risultati talvolta straordinari.
Tra tamburi e sapori indiani, un testo breve e semiserio racconta del disagio provato all’idea di essere un uomo grasso, tra difficoltà sociali di vario genere. La questione tra l’essere un uomo magro o grasso si risolve infine con una sfida consistente nel far rotolare entrambi gli uomini giù dalla montagna: l’uomo grasso certamente vincerebbe.
Segue la fragile We Used To Know, tanto più triste quanto più ricca di assoli meravigliosi e raffinati. Protagonista è di nuovo la chitarra di Barre, insieme morbida, cupa, aperta e tagliente, tra effetti wah-wah e lirismi portati avanti con sensibilità e intensità notevoli.
Reasons For Waiting è un’altra perla di delicatezza, coronata dalla pienezza dell’organo Hammond e dalla dolcezza del timbro di Anderson, sia come cantante che come flautista insieme a Barre, ora di nuovo nei panni del secondo flauto.
Anche il testo rispecchia le sonorità morbide, ricamando immagini di un amore sperato e cercato nelle notti, all’alba e nei sogni.
Chiude il sipario For A Thousand Mothers, brano grintoso, esplosivo e chiassoso. Un basso energico e galoppante incalza il flauto, qui feroce e insidioso sin dalla prima nota.
Incisivi, insistenti e determinati, dopo essersi dimostrati capaci di realizzare musica attenta e delicata, i Tull si muovono su sonorità caldissime e spinose, fingendo addirittura un finale col botto che farà invece ripartire il pezzo per alcuni secondi; scelta fatta forse solo per divertimento, o forse a sottolineare il fatto che quando la puntina avrà smesso di girare non lo avrà fatto la loro musica. E allora Stand Up per questi cinquant’anni eclettici e rombanti, che compleanno!
C.