The Prisoner – The Prisoner
Una dedica accorata a Martin Luther King prende forma nell'album che segna la fine della collaborazione di Herbie Hancock con la Blue Note Records e risulta allo stesso tempo la fine di un periodo musicale e l'inizio delle sperimentazioni che Hancock metterà in campo successivamente.
Abbiamo a che fare con una session Blue Note a tutti gli effetti: il suono del disco è perfettamente amalgamato e tridimensionale (grazie alla sapiente tecnica di Rudy Van Gelder), Hancock si lancia in una dimensione semi orchestrale che è il netto proseguimento di Speak Like A Child (Blue Note, 1968): l'armonia è assecondata con una ricerca sulla pasta timbrica degli strumenti; la scelta di accorpare flicorno, flauto contralto, clarinetto basso e corno è in qualche modo eredità delle ricerche di Gil Evans e George Russell nei movimentati anni del cool jazz con l'aggiunta dello sguardo armonico hancockiano e la sua inconfondibile vena compositiva. Qui Hancock non si pone come unico solista sopra gli arrangiamenti (come aveva fatto con Speak Like A Child), ma lascia spazio ad altri improvvisatori come Joe Henderson e Johnny Coles che danno vita ad assoli memorabili. Henderson tra tutti si muove in maniera particolarmente fluida in questa dimensione orchestrale liquida che sembra fatta apposta per il suo timbro brunito e per le sue costruzioni oblique ed inarginabili.
Herbie Hancock in questo album ci mette di fronte a molte delle sue capacità, a partire dalle sue incredibili doti pianistiche, a quelle di compositore e di arrangiatore. Nella scrittura di questo disco saltano fuori anche varie delle sue influenze e dei suoi ascolti. C'è dal punto di vista armonico l'ombra costante di Bill Evans, soprattutto nel muovere gli accordi in maniera libera senza una particolare gravitazione tonale su nessuno di essi. Brani come The Prisoner fanno sentire al loro interno una influenza stravinskiana e lo stesso Herbie dichiara di aver pensato a La sagra della primavera nell'atto della composizione. Come già accennato la grande scuola di arrangiamento di Gil Evans si percepisce molto bene nell'uso del colore nelle orchestrazioni. La generale fluidità armonica e l'utilizzo di una tavolozza di ampie sfumature lasciano spazio ai solisti per sviluppare linee melodiche libere, non vincolate ad un pensiero armonico. In questo Herbie si dimostra capace di una poetica sopraffina nella quale ci chiarisce la grande influenza che hanno avuto su di lui Bud Powell e George Shearing, miscelata con l'apporto armonico di Bill Evans e infine rielaborata in un pensiero musicale e politico che diventa immediatamente riconoscibile come Herbie Hancok.
Ogni brano dell'album ripercorre fasi e tappe del pensiero e delle fatiche di Martin Luther King, a partire dall'inequivocabile I Have A Dream, passando per il fuoco indomabile che alimenta il pensiero dell'uguaglianza, la paura, non tanto della morte quanto del fallimento e la prigione in cui certi fardelli relegano l'uomo che li porta. Non manca sul finale un po' di speranza: The Promise Of The Sun, la promessa del sole. Gli uomini sono transitori, le idee rimangono.
G.