Per l’intero decennio degli anni Sessanta, l’America e in particolar modo gli Stati Uniti furono attraversati e scossi da una lunga catena di movimenti afroamericani, che si batterono strenuamente per la conquista di quei diritti umani necessari per poter definire civile una società; diritti ovvi per la popolazione bianca ormai da lungo tempo, ancora lontani e portatori di violenza e di miseria per quella nera. Troviamo ancora oggi un’importante testimonianza della tensione che caratterizzò il decennio nei fatti di Watts, un distretto di Los Angeles che nell’agosto del 1965 venne messo per sei giorni a ferro e fuoco dalla polizia e dagli afroamericani residenti nel sobborgo, e che oltre ai morti contò migliaia di feriti. A questo vanno aggiunte decine di azioni giornaliere collettive e individuali, di assassinii, di esempi illuminanti di resistenza passiva, per poter arrivare ad un risveglio morale e sociale che portasse a sua volta all’equità del valore della persona nel vivere quotidiano, oltre le discendenze e oltre il colore della pelle.
Anche l’arte e la musica ebbero un ruolo tutt’altro che trascurabile nella lunga lotta alla discriminazione: associazioni ed artisti si concentrarono nel far partire un movimento urbano che migliorasse la qualità della vita laddove la ghettizzazione di famiglie e quartieri era pane quotidiano. L'apertura di scuole di musica, l'organizzazione di concerti e la creazione di occasioni di incontro per la comunità concorsero ad accendere un progetto di rafforzamento e di arricchimento della cultura afroamericana, soprattutto nelle realtà più emarginate. Il primo esperimento nacque da Horace Tapscott, che fondò a Los Angeles la UGMAA (Union of God's Musicians and Artists Ascension), con l’intento di preservare, sviluppare ed esportare la musica afroamericana. Il modello di Tapscott fu in seguito preso e riproposto a Chicago in quella che divenne la AACM (Association for the Advancement of Creative Musicians), nata dagli sforzi di Richard Abrams. Il punto cardine di queste associazioni era intendere e utilizzare la musica come occasione di incontro e di attivismo politico cittadino: i giovani musicisti delle high schools venivano affiancati a musicisti professionisti suonando in luoghi in cui solitamente i concerti non erano previsti (centri sociali, parchi pubblici, negozi ecc.), potendo in questo modo prendere parte ad azioni artistiche a sfondo politico e sociale. Troviamo un esempio nella partecipazione della UGMAA ai sopracitati scontri di Watts del 1965, a cui l’associazione prese parte con azioni musicali a fortissima impronta sociale. La musica che principalmente veniva suonata si distingueva per essere il risultato di un mix della cultura nera e di quella nera americana, che partiva dal jazz e dall’improvvisazione per arrivare a costituirsi in lunghi assoli liberi poggiati su riff reiterati del basso.
La UGMAA resistette fino agli anni Novanta ed ebbe un ruolo fondamentale per l’aggregazione sociale e per la produzione artistica, soprattutto nel territorio intorno a Los Angeles. La AACM invece esiste e resiste ancora, confermandosi una perla di associazionismo jazzistico e insuperata culla di ritrovo per musicisti di ogni parte del mondo. E proprio nel magma vorace dell'AACM mossero grandi passi musicisti come Lester Bowie, Roscoe Mitchell e Joseph Jarman, che nella prima metà degli anni Sessanta pubblicarono dischi avanguardisti di indiscutibile importanza, inizialmente a loro nome e successivamente concentrando le proprie forze nel gruppo che è passato alla storia come Art Ensemble of Chicago.
Lo sfondo sociale, politico e culturale così ricco di criticità permise nel 1969 al gruppo, che da ora chiameremo semplicemente Ensemble per comodità, di pubblicare ben sette album. La formazione di partenza si costituì come quartetto, con i seguenti strumenti di riferimento (riferimento generico che non può non tener conto della straordinaria varietà timbrica del gruppo, da sempre uno dei suoi tratti distintivi): Roscoe Mitchell e Joseph Jarman ai sassofoni, Lester Bowie alla tromba e Malachi Favors al basso. Solo nel 1970 si aggiunse il batterista Don Moye e il gruppo si consolidò in quella che sarebbe rimasta la formazione storica.
Nei suoi lunghi e fruttuosissimi anni di lavoro, l’Ensemble incarnò la sintesi dell’estetica della sopracitata AACM, dettando gli stilemi compositivi e comunicativi della Great Black Music: venne abbracciata in toto ogni forma di musica nera abbattendo, in una sorta di performance di teatro sonoro, tutti i limiti di genere. In questo fluire ebbero così modo di incontrarsi, scontrarsi, farsi e disfarsi soul, blues, jazz, Africa, New Orleans, spiritual, reggae, deliri eccentrici, richiami ironici alla musica colta europea, esperimenti, oggetti del quotidiano come clacson, radioline a batteria e attrezzi da lavoro. Va da sé che, in questo spirito, l'allargamento delle possibilità timbriche divenne non soltanto un imperativo ma una necessità, rendendosi parte fondante della ricerca musicale e dei messaggi in essa contenuti. Ecco dunque spiegata l’impossibilità di mettere nero su bianco l’organico del quartetto senza ulteriori preoccupazioni, dal momento che ascoltare l’Ensemble significa inevitabilmente sentire affiorare flauti, flautini, trombe, sassofoni di ogni taglio, fischietti, sonagli, strumenti etnici, percussioni di varia entità, fino alla comparsa di strumenti giocattolo, giocattoli stessi, voci, voci preregistrate, sintetizzatori e tastiere che spaziano dal pianoforte al clavicembalo.
Resta però indispensabile sottolineare come queste sperimentazioni vennero affiancate da profonde ricerche personali che i singoli membri fecero sui propri strumenti di riferimento, in maniera disallineata rispetto al ruolo storico e storicizzato attribuito ad essi. Mitchell e Bowie reinventarono diverse maniere di imboccare il sassofono e la tromba e di estrarne materiale sonoro trascendendo il classico andamento esecutivo, composto dall’unione di ritmo, melodia, note e intonazione, per seguire una direzione puramente timbrica. Per una maggiore chiarezza citiamo Stefano Zenni e la sua Storia del Jazz, una prospettiva globale: “Forti della storia pluridecennale di innovazione timbrica del jazz […] inventano tecniche di imboccatura, fiato, pistoni, chiavi da cui fioriscono una varietà di metafore timbrico-carnali, vocali e corporee, che si estendono all'intero arco delle espressioni umane – dalla tortura alla gioia – in una fusione estrema di carne e strumento.”
Non sembrerà strano, a questo punto, percepire come inevitabile il guardare alla musica dell’Ensemble come ad un fluire vulcanico e talvolta caotico, sviluppato attorno a cellule ritmiche, tavolozze timbriche, dialoghi tra gli strumenti, dialoghi tra i musicisti, lettura di poesie, performance teatrali e tutte le infinite sfumature che si possono ritagliare dalle ricombinazioni - talora minimali, talora esplosive e travolgenti - del materiale disposto su tavolozze in costante fase di creazione.
Mantenendo vivo l’accento sul 1969 e sulla prodigiosa quantità di materiale che il gruppo fece uscire dagli studi, concentriamo ora l’attenzione su due dei sette album pubblicati nell’arco di quei dodici mesi: A Jackson in Your House e The Spiritual, registrati entrambi sul finire di giugno, a pochissimi giorni di distanza l’uno dall’altro.
Il primo elencato fu anche il primo a vedere la luce nel 1969, sotto l’ala dell’etichetta francese BYG Actuel, specializzata in free jazz. Questo fu l’unico album a portare addosso un timbro di matrice francese, poiché in quei giorni il gruppo stava soggiornando a Parigi e questo portò ad un proficuo ma isolato incontro tra le parti.
Ad un primo, un secondo ed un terzo ascolto, A Jackson in Your House continua a colpire per la meticolosa organizzazione del disordine che lo attraversa; ben lontano dal risultare formale, ancor meno formalistico, e meno di tutto un’accozzaglia sperimentale senza capo né coda. Come si arriva allora a questo “disordine organizzato” senza cascare nel prevedibile, nella ripetizione, nella sovrapposizione delle parti ad altissimo volume per celare unicamente la mancanza di idee? Probabilmente ad esso l’Ensemble arriva grazie all’essere, prima ancora che al risultare, una art ensemble e non un-gruppo-che-fa-free-jazz. L’attitudine a mettere in scena elementi teatrali, l’ascolto reciproco, la consapevolezza del proprio ruolo, l’importanza del silenzio, il bisogno di valicare i limiti del proprio strumento e del significato che comunemente viene attribuito al termine, escludendo in questo modo una interminabile lista di oggetti che possono contribuire a creare sfondi e linee sonore di grande significato, concorrono tutti insieme a tessere una rete di attitudini che, paradossalmente, più si infittiscono e più aprono la strada verso la libertà, mentale e corporea e infine artistica. In questa prospettiva, suonare free jazz risulta solo un accessorio del ben più impegnativo fare musica e farla nell’eco della missione della AACM, veicolando messaggi densi di riferimenti sociali e di eredità artistiche assai pesanti, come quelle di Louis Armstrong, King Oliver, Ornette Coleman e di oltre un secolo di canti gospel consolidati. Si faccia molta attenzione a non considerare i riferimenti al mondo jazzistico affiliato a New Orleans come ad un ripiego per ovviare alla fine delle possibilità di sperimentare o alla mancanza di un substrato artistico autentico su cui poter lavorare. O ancora peggio, a considerare il tutto come un enorme gesto di scherno nei confronti dei padri fondatori del jazz, atteggiamento consueto in coloro che non sono in grado di cogliere il rispetto, se non addirittura la devozione, nella musica che porta con sé tratti ironici e giocosi.
A differenza di A Jackson in Your House, che con occhio contemporaneamente meticoloso e scanzonato dava vita ad un album fortemente in grado di intrattenere, The Spiritual abbandonò in parte i riff energici, i detriti funky, le esaltate eruzioni free e la febbre dei bassi per far posto a sonorità più intime e, se vogliamo, anche più celebrative nei confronti della ricerca stilistica che il gruppo continuava a portare avanti con attenzione. Il livello artistico raggiunto è non solo molto alto, ma altamente cucito tra le maglie della tradizione gospel e di un innovativo modo di intendere il jazz che escludeva quasi completamente la base ritmica, affidata da sempre alla batteria. In questo modo, i riferimenti temporali sono a tal punto svincolati da non essere nemmeno più dei riferimenti, e la musica si lascia costruire su timbri e piccole cellule sonore prima che su qualunque altra cosa. Non è un caso che, nonostante l’organico conti solo quattro elementi, gli strumenti e gli oggetti utilizzati siano in tutto una trentina; un numero decisamente considerevole per quattro tracce suddivise in meno di quaranta minuti totali di musica.
Possiamo guardare dunque a A Jackson in Your House e a The Spiritual come alle due facce della luna, incapaci di incontrarsi ma parte integrante della medesima sostanza, capace di unire forza espressiva, audacia, abilità tecnica, sonorità sottili, libertà nell’utilizzo dei mezzi per comunicare, attitudine al teatro (inteso nel senso letterale di “luogo desinato all’osservazione e alla meraviglia” e non come mero piano rialzato per una spettacolarità premeditata), conoscenza del passato e totale assenza di pregiudizi.
Il risultato, oltre ad essere ricco di significati e di sfumature nascoste, resta musicalmente molto interessante ancora oggi, ancor più se si pensa alla quantità di gruppi dediti al free jazz che sono in circolazione e su cui l’Ensemble continua a svettare. Il consiglio non potrebbe quindi essere altro che quello di prestare orecchio ad entrambi gli album, ma ad ogni modo proponiamo qui Get in Line, brano compreso in A Jackson in Your House e sapientemente strutturato sulle influenze di Ornette Coleman e su quella propensione, accennata in precedenza, ad affrontare grossi scogli artistici attraverso sonorità giocose se non addirittura umoristiche, ben lontane dall’essere superficiali o frutto di una generale mancanza di maturità musicale. Anzi: qualche tempo prima di Get in Line, il filosofo tedesco Friedrich Schiller scriveva che l’uomo è veramente uomo solamente quando gioca, e questa volta sembra fare proprio al caso.
C. G.