Malinconia figlia di tutte le arti è quella che porta con sé la convinzione di stare vivendo in un’epoca di stallo, in cui il peso del passato è angoscioso e insostenibile, poiché tutto è già stato detto e nessun ulteriore sviluppo del pensiero è possibile.
Cosa fare dopo Tolstoj? Dopo Picasso, dopo Nietzsche, dopo Shakespeare, dopo Michelangelo?
E cosa fare nel 1969 con solo un sax contralto tra le mani, senza altri strumenti ad accompagnarlo? La risposta probabilmente si trova nell’unico antidoto all’impasse malinconica che strozza il naturale avanzamento di epoche e stili: studiare.
Con la rivoluzione di Arnold Schönberg ancora dibattuta e quelle di Karlheinz Stockhausen e John Cage pienamente in atto, a metà del XX secolo la musica si trovava a vivere enormi stravolgimenti, enormi scossoni ed enormi strascichi di un dopoguerra che stava lasciando contraddizioni e lesioni profonde ad ogni generazione, nessuna esclusa. Per quanto riguarda il sassofono in particolare, le fatiche di Charlie Parker, di Ornette Coleman e di John Coltrane avevano cambiato per sempre la storia del jazz, lasciando orme vive e permanenti.
Tutto questo e molto altro doveva avere chiaro in mente Anthony Braxton quando decise di dedicarsi ad un album per sassofono solo, il primo che fosse mai stato registrato.
Otto tracce di lunghezza variabile dedicate ogni volta a persone diverse (tra cui anche il compositore John Cage e il pianista Cecil Taylor) formano il mastodontico For Alto, in cui le influenze del passato si integrano e si mescolano agli interrogativi di un’arte attiva, che non può esimersi dall’affrontare i morsi e gli appetiti del suo tempo. Succede così che Braxton inglobi e restituisca attraverso la musica un quadro preciso, robusto e personale, con creatività e intelligenza: la forza delle intenzioni e delle idee oltrepassa i confini tecnici e meccanici dello strumento; il sassofono si separa dal suo repertorio e l’ancia vibra sfacciata, a volte con violenza, altre quasi inudibile. Il discorso scorre fluido in un enorme alternarsi di disegni e influenze, dai cui argini possono fare capolino Eric Dolphy o André Jolivet, rumori e richiami ad altri strumenti, fraseggi strutturati e passaggi frutto di un’improvvisazione radicale e spregiudicata, tanto da far arrivare Anthony Braxton come artista prima del sassofono e del sassofonista.
Nel pezzo dedicato a Murray De Pillars (minuto 10:14 del video allegato qui sotto), è l’idea di partenza a muovere tutto il resto: un trillo di semitono è il nocciolo dal quale via via si schiudono piccole architetture sonore, ora leggere ora massicce. L’allargamento dell’intervallo iniziale in una serie di tremoli che si protraggono fino alla fine, non può fare a meno di richiamare alla mente uno dei passaggi più importanti tra le composizioni del Novecento per strumento solo: si tratta di Luciano Berio e della sua Sequenza per flauto solo, scritta poco più di un decennio prima e rivoluzionaria nel modo di intendere il ruolo armonico degli strumenti in grado di produrre un solo suono per volta.
Sotto quale genere collocare dunque Anthony Braxton e il suo For Alto? O meglio, è necessario trovargli una sistemazione? Di fronte ad un lavoro così ricco e personale e allo stesso tempo così carico di richiami e di ricerca, voler a tutti i costi appiccicare un’etichetta si dimostra un’ingenuità. Quando la musica arriva a descrivere e contemporaneamente a trascendere il suo tempo meriterebbe che ci rivolgessimo a lei senza sentenze né fronzoli: chiamandola musica, e basta.
C.