ARITMIE episodio 6

Sons of Kemet

Perché nel 2018 un gruppo di artisti inglesi dovrebbe ancora prendersela così accanitamente con quella simpatica vecchietta della regina d'Inghilterra? Per un'ostinata convinzione che dietro ai suoi vestitini colorati, dietro a qualche avvizzito gossip di palazzo e all'ostentazione di una anacronistica, regale inglesità, ella incarni il simbolo più deprecabile dell'imperialismo britannico tentando di nascondere, sotto a qualche sgargiante mantellina, una serie di storicizzati atteggiamenti razzisti e xenofobi.

Il quartetto inglese Sons of Kemet, qui al terzo album, rende chiaro già dal titolo quale sia il punto: Your Queen is a Reptile (la vostra regina è una serpe). Le indiavolate note di copertina svelano, oltre alla rabbia, una ben più pressante necessità di far vedere al mondo che le alternative sono esistite, esistono e continueranno ad esistere: «le nostre regine camminano tra noi, le nostre regine ci conducono tramite azione ed esempio [...] le nostre regine sono come noi e sono umane».

Ognuno dei nove brani è intitolato My Queen is (la mia regina è) seguito dal nome di una donna che ha fatto la differenza. Una differenza davvero grossa, ma che a quanto pare attira minor risalto mediatico dei coloratissimi cappellini di Buckingham Palace. Con la speranza di suscitare qualche curiosità verso le storie e le rivoluzioni che incarnano, citiamo qui ognuna delle attiviste, leader, rivoluzionarie coraggiose e regine così umane prese in causa. Dall'inizio dell'album siamo in prima linea per mano ad Ada Eastman, Mamie Phipps Clark, Harriet Tubman, Anna Julia Cooper, Angela Davis, Nanny of the Maroons, Yaa Asantewaa, Albertina Sisulu e Doreen Lawrence.

Questa così diretta critica all'impero britannico fa forse pensare al punk, ma siamo fuori strada, qui non va in scena la rabbia demolitrice che tanto ha infervorato la generazione di Johnny Rotten e compagni, qui all'opposto si fa attenzione a dare un esempio chiaro, efficace, insindacabile e potente. In un periodo storico fatto di muri, di frontiere e di porti chiusi, è di donne e di esempi come questi che abbiamo bisogno.

Dal punto di vista musicale abbiamo a che fare con una formazione dal suono molto scuro, sax tenore, basso tuba e due batterie, che si muove attraverso stilemi afrobeat, funk, jungle e blues. Escluse un paio di brevi incursioni rap la musica è tutta strumentale e abbraccia senza timori le trivialità ancestrali della danza, quasi fosse un rito collettivo. Nel brano di oggi dedicato all'attivista sudafricana Albertina Sisulu siamo di fronte ad un groove trascinante costruito dall'incastro tensivo di tutti gli strumenti. Nonostante la presenza di parti improvvisate, il gruppo tende a non assecondare nessun virtuosismo in punta di piedistallo, spostando l'attenzione su quel “di più” generato dal tutto oltre alla somma dei suoi elementi. Considerando anche che il disco è uscito in piena trattativa brexit, questa scelta rende il messaggio ancora più chiaro e potente poiché la musica segue la stessa logica di un discorso di militanza politica: sollevare gli animi, sollevare lo sguardo, restare uniti e combattere insieme poiché la forza delle idee, dell'arte, degli esseri umani e dell'essere umani non teme frontiere.

 

G.