ARITMIE episodio 3
Non sono passati così tanti anni da quanto Leo Longanesi scriveva che a tarpare il presente non fosse la mancanza di libertà quanto piuttosto la mancanza di uomini liberi. Se trasferiamo lo stesso pensiero in un contesto odierno strettamente musicale, ci accorgeremo di come la libertà di poter ascoltare, acquistare e condividere album e playlist senza limitazioni geografiche non equivalga affatto ad una altrettanto ricca presenza di musicisti liberi. Anzi: quando a muovere i fili sono pochi e strapotenti nomi tra televisioni e case discografiche, il rischio di ritrovarsi nel piatto la stessa minestra con un po’ più o un po’ meno sale a seconda dell’occasione è assai alto. Riuscire a districarsi è faticoso, certo, ma bando alle operazioni nostalgia e al rifiuto categorico di tutto quello che porta addosso il marchio del ventunesimo secolo, poiché nel mare magnum che ci circonda non manca musica di spessore, incapace per natura di scendere a compromessi e che si esprime, di conseguenza, in libertà.
Ancora più bello e significativo è quando a costruire binari trasversali sono musicisti giovani, che all’appetibilità del prodotto artistico sostituiscono la strenua ricerca di un proprio linguaggio, trattando come nient’altro che una necessità la lunga serie di fatiche indispensabili al suo raggiungimento, senza scappatoie e senza millanterie. Ne è sicuramente al corrente la giovane sassofonista inglese Nubya Garcia, classe 1991 e autrice di Nubya’s 5ive, l’album che nel 2017 non solo l’ha vista esordire come solista, ma che ha incontrato subito la nomina per il Best Jazz Album of The Year ai Gilles Peterson’s Worldwide Awards. Il perché di un esordio così affilato risiede nella migliore delle motivazioni possibili: Nubya’s 5ive è un lavoro bellissimo, al pari ruggente e ragionato, sfacciato e introspettivo, catartico e nerboruto. Con un evidentissimo bagaglio di storia del jazz appresso, tenuto in spalla con la disinvoltura che solo anni di studio meticoloso e appassionato possono garantire, l’album è il punto di partenza e di arrivo di un jazz post-americano che calca con gioia le orme di Sonny Rollins e John Coltrane, includendo afro-beat, assoli delicatissimi e fraseggi che non rifiutano mai di dialogare insieme all’istante con cui si trovano a dover convivere. Il tutto tenuto ben stretto da un’assoluta padronanza tecnica; così assoluta che strumento e strumentista diventano essi stessi un unico pensiero musicale, senza mediazioni.
Sebbene il consiglio, come sempre, resti quello di dedicare l’orecchio all’album intero, possiamo ritrovare buona parte delle caratteristiche sopra elencate nel pezzo Fly Free, suonato da Nubya in quartetto con Joe Armon-Jones, Moses Boyd e Daniel Casimir, rispettivamente pianoforte, batteria e contrabbasso. L’intensità di aderenza al fraseggio e alla ricerca timbrica e l’autenticità con cui la musica si muove arriveranno da sole, e se da un lato ci consentiranno di comprendere che cosa significhi suonare in libertà, dall’altro ci terranno ancorati saldamente alla consapevolezza che l’unico modo per generare arte è accogliere le fratture che la realtà genera dolorosamente. Musica libera in un mare di dubbi insomma, ma poco male; giacché, per chiuderla sempre con Longanesi, «quando potremo raccontare la verità non ce la ricorderemo più».
C.