ARITMIE episodio 23
Immaginiamoci in un’infanzia trascorsa a Toronto, giungla multietnica e multiculturale per definizione, e immaginiamo di poter associare al dinamismo urbano una famiglia che non può fare a meno di Ella Fitzgerald, Oscar Peterson e Charlie Parker. Stuzzicante, no?
Quando a dare man forte alla fantasia creativa di un musicista c’è un terreno acceso e carico di stimoli, la poliedricità non può che essere la naturale conseguenza. Dalla musica di Allison Au, i riferimenti all’ambiente di provenienza arrivano infatti a cascata, creando un mosaico in cui ogni frammento è il risultato di lente condensazioni. Perché di condensare quasi sempre si tratta: non trascurare nulla del proprio ambiente e assorbirne ogni aspetto; un atteggiamento che risulta artisticamente così fruttuoso e salutare, da non poter più differire da una naturale disposizione verso la vita, ancor prima che verso la musica. Per questo, pur essendo Au giovane dal punto di vista anagrafico, risulta molto difficile associare la sua musica a una precisa fascia d’età, come invece viene quasi spontaneo fare con altri artisti. Più che di musica giovane o, in linea di massima, associabile alle acerbità che spesso si riscontrano nelle prime produzioni, diremmo che si tratta di musica senza voglia di invecchiare.
Con all’attivo tre album molto diversi tra loro, oggi ci occupiamo di quello d’esordio, The Sky Was Pale Blue, Then Grey. In poco più di tre quarti d’ora, Au imbraccia il sax, arruola pianoforte, basso e batteria per accompagnarlo e ci mette al corrente delle sagome e delle influenze che hanno popolato il suo scenario: a un fraseggio insieme morbido e marcatamente percussivo che potrebbe ricordare Joe Henderson, si uniscono le traiettorie cadenzate di Billie Holiday, l’ottimismo finemente beffardo di Sonny Rollins e una strettissima familiarità con Kenny Garrett. Il peso delle orme, della città e del giradischi è così nutrito che ogni traccia dell’album è un richiamo alla manualità e alla concretezza prima di tutto il resto; le linee si dispongono e si susseguono variando nello spessore e nell’intensità dei colori, come fossero pennellate sulla tela.
Quasi sembra di incappare in Marc Chagall e in tinte pastello che superano i confini della figura, allungandosi a carezzare ricordi lontanissimi; oppure in Piet Mondrian e in una complessità architettonica sottesa, calibrata per smentire tutto ciò che a un primo sguardo vorrebbe apparire semplice.
Nonostante il titolo sembri suggerire pensieri dalle tinte un po’ fosche, potremmo dire che l’intero album si identifichi nella ricerca di un equilibrio nutrito dal preciso intento di escludere ogni forma di angoscia. Suoni umidi, fraseggi di velluto e fluidità ritmica: è l’eleganza del buonumore a fare da padrona e a tenere il quartetto compatto e perfettamente sincronizzato su ogni passo.
The Bridge At Night arriva alle orecchie come un piccolo quadretto impressionista, in cui schizzi di luce rimbalzano sull’acqua scura e si macchiano della città giocando come gatti randagi, finché l’alba non allunga le dita all’orizzonte; e allora ritornano nei flutti, allontanandosi per sempre.
C.